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Il Profilo Della Montagna
Un racconto invernale di Sandro Barlettai
Faceva freddo quella mattina.
Non il freddo invernale quando la coperta di neve sembra stemperare l’aria gelida, ma il primo freddo autunnale, quello delle prime brinate che imbiancano l’erba delle radure, quello che il fisico, non ancora abituato, avverte come una scossa che ti fa invocare una maglia più pesante ed un caldo berretto sulla testa.
Ma io lo conoscevo quel sentore, da sempre lo aspettavo come la raggiunta libertà dall’afa estiva e sapevo che dopo pochi minuti di passo sostenuto la sensazione di freddo avrebbe lasciato spazio al sudore accompagnato dal respiro veloce, perciò resistetti alla richiesta del mio corpo e mi incamminai per quel sentiero che amavo al punto di averlo percorso tante e tante volte per arrivare a quel picco che rappresentava per me qualcosa di speciale.
La parte iniziale del sentiero è una passeggiata semplice su una carrabile che ti permette di rompere il fiato, poi si incontra una prima salita in mezzo ad una bella faggeta che comincia a mettere alla prova la tua tenuta e, al termine della salita, un sentiero quasi pianeggiante ti conduce alla radura del Lagaccione dove inizia la parte più dura; una salita breve ma impegnativa su di una pietraia e, infine, un tratto ancora in salita in mezzo ai mirtilli che consente di raggiungere il sentiero “00”: il crinale dell’Appennino Tosco-Emiliano.
E lì sei ai piedi del monte Spicchio; ancora 10 minuti di cammino e arrivi sulla vetta da dove si gode un panorama, per me, davvero stupendo: l’Appennino Reggiano, tutte le Alpi Apuane, l’Abetone, il Cimone e, nelle giornate più terse, in fondo alla pianura Padana si stagliano le Alpi con le loro cime perennemente innevate.
Non si tratta di un percorso difficile, ma per quelli come me, impegnativo.
Quando sei in cima, però, scopri che ne è valsa la pena.
Come molte altre volte, anche quella mattina, detti sfogo al mio passo veloce, mordevo il terreno con l’ansia di raggiungere l’obiettivo come chi è in ritardo ad un appuntamento.
Perché lo faccio? Non saprei dirlo con precisione; sento dentro di me un’esigenza di fare in fretta, di portare il mio corpo ai suoi limiti, di mangiare aria e spazio per placare una fame immotivata.
Quando arrivai sul crinale mi concessi una pausa, alzai la testa per dare uno sguardo alla cima che, di lì a poco, avrei raggiunto e notai che lassù c’era già un altro che si godeva il panorama.
Non fu una sensazione gradevole; era molto presto ed io ero convinto che non avrei incontrato nessuno: ma quando diavolo era partito quello per essere già lì a quell’ora?
Lo osservai e mi sembrò un vecchio anche se la distanza era tale da potermi trarre in inganno, comunque non ero solo e questo mi indispettì; tuttavia ormai ero lì e sarei arrivato sulla cima anche se avrei dovuto condividerla con un altro.
Mentre mi avvicinavo vedevo la sua figura immobile e mentre stavo pensando alle frasi di circostanza da pronunciare al momento dell’incontro, un rumore catturò la mia attenzione, mi guardai intorno per e quando guardai di nuovo la cima del monte per riprendere il cammino l’uomo non c’era più.
Rimasi sbalordito, non era possibile che fosse sceso dall’altro versante quasi a strapiombo: che si fosse trattato di un miraggio? Che, data la distanza, avessi scambiato una pietra o un arbusto per una figura umana?
Tutto questo mi sembrò impossibile e decisi di aumentare il passo per raggiungere la cima il più in fretta che potevo per verificare da lì se riuscivo a vederlo ancora.
Ma quando ebbi la raggiunto la vetta non vidi nessuno neanche nelle radure ai piedi del monte.
La situazione mi sembrò paradossale; davvero avevo visto qualcosa? Non ne ero più sicuro, ma tutto questo mi lasciava inquieto: ancor di più, mi faceva sentire alieno nel posto che amavo.
Decisi di ridiscendere il sentiero a passo ancor più veloce per ritornare al punto del primo avvistamento e quando ci arrivai mi fermai, volsi di nuovo lo sguardo verso la cima e lo vidi di nuovo; ancora seduto sulla pietra, immobile a guardare.
“Per Dio” pensai “che diavolo mi sta succedendo?”
Pulii i miei occhiali per essere sicuro di quello che vedevo.
Non c’era alcun dubbio, sulla cima del monte c’era davvero una persona; fui preso da un senso di sgomento e con ancora maggior lena mi diressi di nuovo verso la cima: stavolta sarei riuscito a parlare con lui, chiunque fosse stato.
Mentre mi dirigevo in alto tenevo fissi i miei occhi su di lui per non lasciarmelo scappare di nuovo, ma persi l’equilibrio e per non cadere dovetti distogliere lo sguardo e quando ripresi a fissare il mio obiettivo l’uomo era di nuovo scomparso.
La sensazione di sgomento stava lasciando il posto alla paura, temevo di stare male; ero solo e, come sempre, in circostanze analoghe, mi rimproveravo per la mia imprudenza: non si va mai in giro da soli dicono i saggi!
Assieme alla paura affiorò, tutto d’un tratto, una stanchezza profonda; non era la sensazione piacevole che si prova dopo aver fatto una fatica vitale, ma quella di svuotamento, di perdita immediata di energia come quando hai prodotto uno sforzo al limite delle tue possibilità per renderti conto che non è servito a niente.
Allora mi fermai e mi sedetti in terra per cercare di calmarmi.
Altre volte nella vita mi era capitato si vincere crisi d’ansia semplicemente aspettando che il tempo mi scorresse addosso ed anche quella volta, lentamente, sentivo i miei muscoli che si rilassavano progressivamente, il respiro riprendere il suo ritmo regolare e lo sciogliersi dei nodi attorno ai miei organi vitali; si, forse ce l’avrei fatta anche questa volta.
“Ce ne hai messo del tempo a raggiungermi”.
Alle mie spalle la voce di un uomo pronunciò queste parole che mi fecero fare un balzo di spavento; mi girai di scatto e, finalmente, lo vidi a pochi metri da me.
Quando mi ripresi dallo spavento mi alzai in piedi e, non ancora completamente ripresomi, farfugliai: “ma io non ti ho raggiunto, casomai sei tu che hai raggiunto me”.
“Ti sbagli” ribatté l’uomo “io ero sempre davanti a te, ma quando stavi per raggiungermi sei tornato indietro, poi sei risalito di nuovo senza vedermi”.
“Non è vero quello che stai dicendo, ti ho visto in cima al monte e quando sono arrivato alla vetta tu non c’eri più, allora sono disceso e ti ho visto di nuovo e quando stavo per raggiungerti per la seconda volta tu sei sparito ancora”.
“Ma io sono sempre stato lì, non mi sono mai mosso; eri tu che non riuscivi a vedermi tu non guardavi realmente correvi con la testa avvolta nei tuoi pensieri; pensaci: quand’è che mi hai visto o hai creduto di vedermi? Quando ti sei fermato e hai dato spazio a quello che ti circonda”.
Le parole del vecchio mi fecero riflettere, per la prima volta lo osservai con attenzione: il naso prominente, le guance e la fronte solcate da profonde rughe scavate dall’erosione del tempo; ma, al tempo stesso un’espressione di forza trasudava dal suo viso e dal suo corpo; era saldo, quasi imponente, in piena sintonia con l’ambiente dove ci trovavamo.
“Chi sei?” Gli chiesi quasi con brutalità.
“Cambierebbe qualcosa se ti di cessi il mio nome?” Rispose “Conoscere la mia identità, darmi una classificazione ti aiuterebbe a capire?”.
Poi fece un gesto strano, allungò il collo e alzò la faccia verso il cielo mostrandomi il profilo del suo volto e mi disse: “chiudi gli occhi, riposati; solo allora capirai”.
Ubbidii al suo comando; tenni gli occhi chiusi per un po’ e cominciai a sentire il vento che incontrava il mio corpo, vedevo le evoluzioni delle poiane nel cielo sopra di me, vedevo le nuvole trasportate dal vento e mi sembrava quasi di poterle toccare con le mani; ad occhi chiusi, vedevo quello che mi circondava con una chiarezza a cui non ero abituato.
Vedevo il suo profilo che mi ricordava qualcuno di conosciuto.
Quando riaprii gli occhi il vecchio non c’era più; al suo posto, davanti a me, il monte Spicchio con le sue rughe scavate dall’acqua, con il suo picco che si stagliava verso l’alto.
Adesso sapevo chi era quel vecchio; potevo tornare a casa, adesso.
Lentamente.